domenica 28 settembre 2008

Riflessioni di un anestesista

Prima dell'anestesia
«Dottore , non sentirò niente? E dopo non avrò dolore? Mi raccomando eh! Mi faccia risvegliare! Sono madre di due bambini piccoli!»
«Dottore facciamo le cose per bene! Mio figlio ha solo otto anni!»
«Dottore tenga presente che io e mia moglie siamo avvocati….. !»


BENE, RAGIONIAMO. Devo toglierti la facoltà di sentire, devo proteggerti da una valanga di informazioni che ti arrivano dall’esterno minacciose, devo riportarti dentro te stesso, in quel luogo sicuro, fermo e silenzioso dove risiede la tua anima, il tuo centro.
Devo ricondurti a casa dove tutto è calmo ed immobile. Devo darti la pace di tanto tempo fa, quando eri solo particelle sub atomiche. Io so che hai creato la tua malattia, hai dato corpo alla tua sofferenza, alla tua nevrosi.
Da li fuori arrivano una miriade di dati da analizzare ed a cui rispondere adeguatamente.
Per quanto possiamo essere efficienti si accumula tanta posta inevasa, che staziona sempre più ingombrante nella Sostanza Reticolare del nostro sistema nervoso centrale, appesantendoci come una zavorra anche mentre beviamo un bicchiere d’acqua o mentre facciamo l’amore. Siamo sempre un pò fuori da noi stessi, dal presente, siamo poco consapevoli. Il corpo non ci sta, prima ti avverte con dei segnali, poi si arrabbia concretamente e si ammala. Allora adesso tu vuoi che io ti accompagni e conduca in quel luogo da cui fuggi continuamente.
Ok, lo so fare, ho scelto questa missione che non è impossibile, ma è divina.
Si, è divina perché non posso sbagliare, altrimenti da angelo della luce, divento un Caronte che ti traghetta negli inferi. Ma attenzione, chi ha questa prerogativa? Questo potere? Dio.
Dio non sbaglia! Allora mi stai chiedendo di essere un Dio. Un Dio giusto e senza errore.
Tutto posso e ad ogni domanda ho una rapida risposta. Ma allora questo mestiere mi rende invincibile! Posso essere temerario e sicuro perché la mia mano e le mie decisioni sono guidate ed illuminate da una forza sacra ed infallibile.
Si ti porterò nell’oblio e poi ti risveglierò a nuova vita. Non avrai alcun dolore né un suo ricordo.
Tutto sarà passato e potrai organizzarti per una nuova malattia.

FERMI TUTTI! IO NON SONO DIO, SONO UNO COME TE. Ho solo delle competenze specifiche, come del resto ognuno nel proprio ambito, ma non posso avere tutto e sempre sotto controllo. I nostri corpi e le nostre anime non sono delle macchine, anche i replicanti di “Blade Runner” sono sfuggiti e si sono ribellati alla programmazione meccanicistica da cui nascevano.
Quale richiesta ambigua e schizofrenica mi viene fatta? Devo proteggere un essere da cui devo difendermi!
Questo lavoro si sceglie per essere, quindi per amare, ma non esiste amore che possa convivere con la paura.
(Articolo pubblicato su MTM - anno 7 - n°1, 2008)

Anestesia e crescita personale

Il lavoro di anestesista può essere strumento di evoluzione personale e di felicità?
Nelle attività ad impronta sanitaria ed assistenziale c’è un apparente ostacolo: il quotidiano contatto con la sofferenza, la malattia, con l’idea e l’esperienza della morte. Le traiettorie faticose della mente lottano incessantemente contro una forza benefica che prova a placarle, a trovare un barlume di leggerezza, di vuoto. Ma il vuoto è l’inizio e la fine, la leggerezza è la conquista di un percorso, è la pacificazione con la nostra esistenza.
Il dolore, nel nostro lavoro, è reale e ci dà un’identità. Il dolore è un’esperienza necessaria ed è necessario abbracciarlo come una madre culla il suo piccolo ammalato. Paradossalmente può essere salvifico fino ad un impulso di rinascita, solo allora il lavoro potrà essere gioioso e creativo, accompagnato dal piacere di dare sollievo ed a volte guarigione.
Come api operaie della sala operatoria, c’è la fatica di ore ed ore trascorse passando di fiore in fiore, di paziente in paziente, fino alla quiete di fine seduta, quando la strumentista ripone i ferri chirurgici e quei rumori metallici e di acqua che scorre purificatrice, mi riporta dalla nonna che lavava posate e pentole dopo il pasto domenicale. A quest’ora siamo tutti molto stanchi e siamo consapevoli che il nemico è stato solo respinto.
Purtroppo il modello di esistenza che vige pone la salute alla stregua di un bene di consumo, come un prodotto che segue le leggi e le filosofie del marketing. Si è fatto largo nella mente delle persone che se ci si ammala, basta trovare il medico giusto ed ogni problema potrà e dovrà essere risolto. C’è l’illusione che l’egemonia della tecnocrazia potrà risolvere gli antichi dilemmi dell’umanità, e trovare l’elisir di lunga vita. Questa ricerca di salute non è una ricerca di “sanitudine”, cioè di una attitudine all’essere sani cioè interi.
I modelli ed i valori proposti, anzi, imposti, sono insani, lavorano nella direzione della nostra divisione.
Corpo ed interiorità sono l’uno ipersollecitato, l’altra ignorata, spesso denigrata.
Questo ti spacca, ti amputa, ti ammala.
In questo scenario l’anestesista rischia di diventare un meccanico specializzato, addestrato e formato alla risoluzione di quesiti tecnici.
I ritmi di lavoro delle sale operatorie assomigliano sempre di più a quelli di una catena di montaggio; non c’è spazio per un attimo di riflessione e di relazione empatica con il paziente dal quale spesso si è percepiti come una figura minacciosa. È facile perdere il senso di tanto indaffararsi e c’è il sospetto che tanta apparente ricerca di efficientismo, di quantità, asserva esclusivamente logiche di tipo commerciale, di produttività, di carriere, di potere.
Tranne rari casi di personalissima attitudine, la perdita del sacro è assoluta.
Dalla logistica all’organizzazione, l’essere curante e curato sono totalmente amputati dal proprio sé mistico e trascendente. È stupefacente come l’interazione, nella cura, sia regolata, dal sistema, attraverso parametri e richieste simili a quelle esistenti tra un operaio ed una lavatrice da aggiustare. Intanto tutto il mondo simbolico continua a fare il suo lavoro ed in questo contesto il risultato è che l’essere che chiede aiuto si trova solo e perduto e l’essere che dovrebbe darlo si percepisce come un freddo e metallico erogatore automatico.
Prego signori, introdurre una moneta, spingere il tasto dell’anestesia desiderata e prelevare. Speriamo che domani vengano a ricaricarmi.
(Articolo pubblicato su MTM - anno 7 - n°2, 2008)

mercoledì 9 luglio 2008

Quale anestesista per un paziente speciale?

Perché il paziente diversamente abile è per l’anestesista un paziente speciale? Perché usa una comunicazione diversa e perché spesso è portatore di patologie ed anomalie anatomiche ad alto rischio anestesiologico. Possiamo affermare che è speciale in quanto richiede un interlocutore speciale.
Come può esserlo l’anestesista? Deve essere in possesso di grande esperienza e competenza tecnica, inoltre deve avere sensibilità empatica.
Quando ci accingiamo a praticare un’anestesia a tale paziente, ci troviamo di fronte a noi stessi. Quanto siamo in grado, di prevenire ed affrontare tutti gli eventi avversi che possono verificarsi, mentre proteggiamo da un insulto chirurgico un essere già provato? Quanto siamo in grado di guardare in faccia la nostra parte più fragile ed indifesa per accoglierla, integrarla e guidarla? L’empatia, ecco la grande possibilità di crescita personale. Non a caso questa parola origina dalla volontà di definire una capacità creativa dell’essere umano. Traduzione del tedesco
EINFÜHLUNG, il filosofo Theodore Lipps l’applicò in ambito estetico per indicare la relazione che lega l’artista ed il fruitore che proietta se stesso nell’opera d’arte. Attualmente, in ambito cognitivo è intesa come capacità di percepire, immaginare ed avere comprensione diretta degli stati mentali e dei comportamenti altrui. In sostanza l’empatia tende all’ottimizzazione dell’interazione tra individui. Ma andrei oltre, tende all’ottimizzazione dell’interazione tra le varie forze che interagiscono all’interno del mondo interiore del singolo individuo. Per questo praticare un’anestesia ad un paziente diversamente abile rappresenta una grande occasione di consapevolezza, significa avventurarsi nel proprio animo, contattare paure, diversità, inadeguatezza, forza, accedere a risorse inesplorate ed alla ricchezza di strade parallele.

Tali riflessioni aprono dei quesiti:

Siamo formati alla comunicazione?
L’ambiente e le organizzazioni del lavoro la favoriscono?
Negli ospedali esistono luoghi pensati a questo scopo?
Il trend della sanità va oltre il modello di un paziente-cliente in un contesto anonimo?
Ci sono volontà e mezzi per introdurre ed incrementare approcci cosiddetti non convenzionali (gelotologia, arteterapia, chiroterapia, ipnosi, shiatsu, etc) utili ad un evento chirurgico meno traumatizzante?


(Articolo pubblicato su MTM - anno 6 - n°3, 2007)

Cesare Felici